2020

Let them talk


Let them talk
2020


di Cesare Cremonini
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Che se ne dica altrove a Bologna non esiste il mondo dello spettacolo. Esiste di contro una affermazione colorita che si diffonde nell’aria di tutta la pianura ad ogni calar del sole colorato di arancio: “Socmel, che spettacolo!”, si grida convinti, e questo è quanto. Tanto stupore da backstage e nessun falsetto, come nelle canzoni di Guccini. La musica e la vita, nella mia città, sono compagni di giochi all’asilo, inseparabili dal primo incontro, eppure se ti venisse in mente di cercare un volto noto tra i nostri portici, lo troveresti più facilmente al bancone di una osteria a contare gli spiccioli rimasti per comprarsi il giornale del mattino, o a mangiare le crescentine “dal Nonno” sui colli, nelle belle giornate di primavera, piuttosto che tra le vie dei negozi. Non sarebbe Bologna, altrimenti.

Gli amici di fuori mi chiedono ancora, appena varco le nostre mura, il perché sotto le due torri i cantanti non siano mancati mai. Una risposta non improvvisata la diede Lucio Dalla chiacchierando con Francesco Guccini in una vecchia intervista: a Bologna si è passati dalla civiltà contadina a quella industriale in un tempo molto rapido e senza passaggi intermedi, permettendo così alle tradizionali forme di comunicazione nostrane, tipicamente canore, di diffondersi senza venire indebolite dalla comparsa delle fabbriche.

Le contadine e le mondine di una volta, dunque, trasferitesi in città per lavorare, avevano importato quelle cantilene antiche e ricche di immagini di cui ancora oggi si sente l’eco nelle domeniche in famiglia o tra i passanti dei portici la mattina presto. In altre parole, qui non si è mai smesso di cantare.

E io sono nipote e figlio di questo: un senso profondo di appartenenza a una storia mai finita, quella delle filastrocche cantate in dialetto per addormentarmi, delle canzoni da chiesa imparate la domenica che ti risuonavano in testa fino al venerdì, e di quelle rime nate per alleggerire la fatica dei mercanti all’alba o dei lavoratori dei campi emiliani. Lo dico con orgoglio, pur sapendo che il perimetro della conoscenza, per chi è così legato alla tradizione, a volte sembra circoscritto. Ma “No, non mi va”, come cantava Lucio Battisti in una canzone degli anni d’oro della musica italiana. “Preferisco restare qua”. Magari non “con la vacca ed il badile”, come consigliava il testo di Mogol, ci mancherebbe, ma con gli occhi accesi e fulminanti, e la bocca sempre aperta al dialogo.

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