Il Resto del Carlino
20 luglio 2009

Buon compleanno, Bologna! NOI SIAMO ROSSOBLU

di Cesare Cremonini

Il Resto del Carlino
20 luglio 2009
di Cesare Cremonini

Ricordo una domenica come tante altre. La sveglia che strilla maleducata al mattino, mia madre che mette fretta come al solito, la Via Emilia trafficata di famiglie in bicicletta. Alle undici in punto ero già vestito da chierichetto all'ingresso di una piccola chiesa che spunta fra i campi arati intorno a San Lazzaro di Savena. L'attesa benedizione del parroco, poi di corsa tutti a casa della nonna, a mangiare le tagliatelle fatte in casa. Avrei passato il pomeriggio a farmi rincorrere da mio fratello in giardino, tornando verso casa soltanto al tramonto, coi pensieri offuscati dalla stanchezza. Invece il mio babbo quel giorno mi regalò un sogno inaspettato. "Andiamo", disse categorico dopo il caffè. "Ti porto con me allo stadio". Lo guardai meravigliato allargando le mie guance al sorriso. Eppure non sapevo bene cosa mi stesse per accadere. Ricordo ancora l'espressione preoccupata di mia madre, (è la stessa che avrei visto ogni domenica da quel giorno), e quella più complice di mio fratello. Ero attratto dalle nuove esperienze, come tutti i bambini, e corsi ad abbracciare le gambe di mio padre per ringraziarlo. Aggrappato alla sua mano come a una fune entrai per la prima volta in curva Andrea Costa trattenendo il fiato per l'emozione. Avevo sette anni e...che confusione di grida e colori dipinti su quei vecchi gradoni dello stadio comunale! Il tifo era assordante. Correva l'anno della storica promozione in serie A ad opera di Gigi Maifredi, un omone alto, grosso e buono chiamato simpaticamente "penna bianca" per la chioma più sale che pepe. Stagione 87/88. "Chi siamo noi?", chiesi a mio padre cercando di farmi sentire in quel baccano. "Noi siamo rossoblù, Cesare", annunciò lui stringendomi a sé. Mi parve un imperativo. "Noi-siamo-rossoblù!", gridai rivolto verso il campo e alzando le manine al cielo, sentendomi già orgoglioso per quella nuova definizione. La partita (Bologna-Genoa) ebbe inizio, e Lorenzo Marronaro, idolo incontrastato della curva e capocannoniere di quel campionato, segnò tre goal spettacolari, infiammando lo stadio in gran festa. Al triplice fischio tutti intorno a me gridavano incessantemente il suo nome, cantando il famoso coro reso celebre da tifosi di Maradona. "Ho visto Marronaro, ho visto Marronaro...". Urlavano come forsennati, inneggiando anche al "mitico" Renato Villa e all'amatissimo "piedone" Pecci. Io ero in estasi. Ripensando a quel momento sento ancora addosso l'entusiasmo e il calore che incontrollato si espandeva nell'aria tiepida, tra cori festosi e coriandoli di carta che svolazzavano nell'aria e mi piovevano in testa. Un sogno chiamato "curva".
Mi ammalai così perdutamente di quelle sensazioni che tornando a casa implorai mio padre di ripetere la stessa magia ogni domenica, pur sapendo che sarebbe stato difficile convincere mamma. "Non se ne parla. La curva è pericolosa!", fu il suo motto per tutta la settimana.
Cosa ci fosse di così pericoloso in tutti quei sorrisi e coriandoli svolazzanti mi sfuggiva, ma mi accontentai della loro contro-proposta. "Faremo l'abbonamento nei distinti, l'anno prossimo", decise mio padre spegnendo una delle sue Muratti in un grande posacenere che troneggiava sul tavolo di legno al centro del salotto.
Il Bologna era appena tornato in serie A, e dopo l'estate, un grande poster della squadra omaggiato come sempre da "Il Resto del Carlino", fu appeso con due puntine al muro vicino al letto di camera mia. I rossoblù così tornarono a giocarsela alla pari con le grandi, e in appena due anni il mio nuovo idolo "penna bianca" riuscì a riportare la città in Europa, proprio nell'anno degli attesissimi mondiali del 1990. Il calcio divenne a tutti gli effetti parte della mia vita. Per l'occasione lo stadio venne ristrutturato, ampliato e colorato di giallo e di verde. Due colori che lo facevano assomigliare più ad una gigantesca pannocchia arrostita che al tempio dei nostri colori! Io, circondato dai miei amichetti di scuola, spegnevo in un solo soffio dieci piccole candeline colorate di rosso e di blu.
Gli anni seguenti passarono velocemente, proprio come speravo, e la mano forte e liscia di mio padre, che fino ad allora mi aveva accompagnato ogni domenica, gradino dopo gradino, verso il solito posto a fianco della curva, cominciò lentamente a lasciare la sua presa, fino a rendermi sicuro e libero di scegliere mio fratello Vittorio, di due anni più grande di me e con una passione incontenibile per il Bologna, come compagno delle mie domeniche sportive.
Ancora la musica non era un sogno, sebbene le lezioni di pianoforte occupassero buona parte del mio tempo libero. La poesia mi incuriosiva, certo. Era attraente e consolante. Ma mai quanto un bel pallone da calcio con cui emulare le imprese dei miei eroi.
Così nel 1993, insieme a mio fratello Vittorio e a qualche altro fidato amico di scuola mi abbonai per la prima volta in curva Andrea Costa, cominciando a frequentare i suoi tifosi anche in trasferta, nei terribili anni del fallimento societario, della retrocessione in serie C, (la seconda nella storia del Bologna), e del continuo alternarsi di allenatori, giocatori...e presidenti. Non posso certo dire di aver scelto il momento migliore per il grande passo! Erano giorni quelli in cui fra coetanei era certamente più facile sbandierare la propria ammirazione per squadroni come il Milan, la Juve o l'Inter. Infatti a scuola andavano di gran moda le maglie a righe verticali. Insopportabile!
Come per orgoglio io e mio fratello cominciammo a collezionare le sciarpe di tutte le tifoserie italiane contro cui vinceva il nostro "piccolo" Bologna, le magliette delle squadre di calcio di serie A, B e C, italiane e straniere, e scartavamo le foto di famiglia dai sacri album di fotografie per usarli come raccoglitori delle immagini più belle delle coreografie dei tifosi del Bologna, o dei biglietti d'ingresso allo stadio delle partite che andavamo a vedere fuori città, in trasferta. Seguivamo il nostro piccolo grande "Bo" senza badare a nient'altro. Non ci importava quasi nulla di chi fosse l'avversario, anche perchè battersela faticosamente contro il Crevalcore in serie C non era certo qualcosa di cui andare...sportivamente fieri. Ogni partita era però "quella della vita". Fra le tante ricordo le infuocate trasferte in serie B a Cesena, a Ferrara, a Reggio Emilia, a Verona, sotto la neve a Milano per la Coppa Italia, ad Ancona. Le più vicine le affrontavamo in pullman, le vicinissime persino in motorino, e le più lontane stretti e ammassati su scassati treni speciali che ci portavano lentamente verso le gioie e i dolori di una squadra tanto amata quanto ferita.
L'indimenticabile goal di Bresciani che nel 1996 riportò a galla la nostra nave affondata è un ricordo indelebile per me. Sembra strano a dirsi, per una squadra dal passato così glorioso, ma è ancora oggi uno dei momenti che ricordo con più nostalgia e commozione tra le ultime vicende del Bologna. Avevo sedici anni tondi tondi e piansi di gioia come un bambino, abbracciato a mio fratello e a tutta la curva con cui avevo condiviso tante assurde umiliazioni. Ricordo che il mio amico Gabriele non riusciva a smettere di saltare dalla gioia. Io corsi in campo e, sdraiato sull'erba, cominciai a cantare come un matto. L'incubo ci sembrava finito.
Giornate del genere, anche se non raccontano di scudetti e vittorie clamorose, anche se non parlano di coppe e di trofei e possono far scappare via dal ridere chi ha vissuto la gloria del Bologna che fu, fecero crescere nei giovanissimi di allora una passione vera, contagiosa, che fortunatamente si è tramandata di generazione in generazione, e che è riuscita miracolosamente a unire in un solo slogan tutte le gioie e i dolori che questa maglia adorata porta con sé da cento anni a questa parte. "Alè! Alè! Forza Bologna!" gridava il mio babbo sventolando il suo cappelo scuro nell'aria, il giorno in cui i felsinei di Bernardini vinsero il loro ultimo scudetto nel '64. Un ricordo così lontano dalla mia generazione, eppure così vivo nella memoria dei fortunati che lo vissero. Quelle furono però le stesse parole cantate a squarciagola da me e mio fratello quando in piena notte scappammo di casa, senza preavviso, per seguire i rossoblù in trasferta a Praga, nelle ultime notti europee di fine anni novanta. Mio padre in quell'occasione fu meno entusiasta a dire il vero, perchè io....non avevo ancora la patente! E non posso dimenticare di aver guidato un'intera notte da Vienna a Praga, attraverso l'Europa, con la sciarpa del Bologna al collo e mio fratello e i suoi amici più grandi di me che dormivano sognando la vittoria. Fu un viaggio allucinante, di quelli che "solo una volta nella vita", ma ne valse la pena.
Ancora oggi comunque la parola d'ordine è la stessa. Un grido liberatorio, genuino, che appartiene a tutti noi. Un mantra ripetuto senza sosta per dare voce alle proprie emozioni. E sono tante quelle mi hanno commosso e fatto toccare il cielo con un dito in questi vent'anni, nonostante il buio di certi momenti. In primis la notizia dell'acquisto di Roberto Baggio, nell'estate di dieci anni fa. Ero da poco diventato maggiorenne, guidavo una 500 blu, (casualmente del '64), con attaccato sul cruscotto uno sticker dei Forever Ultras. Quale occasione migliore per ricevere un regalo così importante! Mi mancò il fiato tanta era l'eccitazione, e decisi di non andare in vacanza durante quell'estate, rinunciando alle mitiche serate riccionesi in compagnia dei miei amici, per godermi a pieno l'aria di festa che si respirava in città. (O ero in punizione per essere stato rimandato in matematica al liceo...?) Quelle gioie comunque sono le stesse che mi fecero scrivere in una canzone qualche anno dopo, raggiunti i miei sogni musicali, che "da quando Baggio non gioca più, non è più domenica". Lo pensavo, lo ammetto. Ma le domeniche grazie al cielo non finiscono mai, come le grandi emozioni, come le canzoni di una volta, come le vere storie d'amore.
Ogni anno mi costringono ad abbonarmi ancora, e ancora, e il mio babbo, che è medico, non è mai riuscito a curare a suo figlio quella malattia contagiosa presa ventidue anni fa. "Noi siamo rossoblù", mi disse quel giorno, e oggi quella stessa frase mi rende orgoglioso di esserci, e di credere al sogno di un altro scudetto che sono sicuro, un giorno, tornerà cucito sulla nostra maglia. A noi bolognesi forse basta questo: poter sognare ancora. E chi ha mai smesso?!
Buon compleanno, caro Bologna!