Corriere Buone Notizie
28 Agosto 2016

“Scrivere, per (ri)vivere”

di Cesare Cremonini

Corriere Buone Notizie
28 Agosto 2016 
di Cesare Cremonini

Tra i cantautori che preferisco c’è Sixto Rodriguez, un americano di origini messicane che pubblicò tre album nei primissimi anni settanta e poi, visto l’umiliante risultato di vendite riscontrato dai suoi dischi, scomparve nel nulla, tornando alla dura vita dei sobborghi di Detroit come operaio in cantieri edili e per ditte di demolizione. Leggende popolari lo diedero per morto, almeno fino al 1997, quando sua figlia lo riconobbe casualmente in una foto su Internet scoprendo che le canzoni di suo padre erano diventate il simbolo della lotta contro l’apartheid in Sud Africa. La storia di Rodriguez, oggi per tutti una rockstar, gli appassionati di musica e di cinema la conoscono bene. Io l'ho presa in prestito per riformulare una domanda che mi faccio da quando ho cominciato a scrivere canzoni: saremmo capaci di creare senza cedere al desiderio di condividere ciò che si è prodotto, chiederne conferma, desiderare “like” o cuoricini? Senza la smania di essere letti, guardati o ascoltati? Oppure l’esibizionismo è una legittima parte del processo creativo?
Una prima risposta me l'ero data in giovane età, osservando le amiche di scuola che torturavano le immacolate pagine a righe dei loro quaderni con sfoghi personali, piccoli racconti quotidiani e infinite spiegazioni date a un interlocutore immaginario molto paziente e comprensivo: il diario “segreto”. Ci dedicavano alcune ore della giornata, ma si rifiutavano di condividere ciò che scrivevano.
Che la scrittura fosse terapeutica lo avevo già intuito, ma perché allora tenersi quella medicina solo per se? Lo ammetto: in quel periodo soffrivo di un precoce egocentrismo, motore di una ambizione artistica allora affamata e insoddisfatta. Erano quelli gli anni delle mie prime composizioni musicali, acerbe e molto personali, delle piccole poesie influenzate dalle letture scolastiche, dei primi vagiti di una attrazione verso le rime che si sarebbe resa fatale solo dopo qualche anno, al cominciare del liceo. Anche io, come i miei compagni, sentivo lo scrivere come una necessità irrinunciabile, anche se accostata maggiormente al suono del pianoforte, ma non riuscivo a concepire come possibile nessuna forma di espressione se non stimolata da un obiettivo prestabilito: suscitare un forte interesse negli altri. Il motivo per cui invece, vent’anni dopo, quelle stesse persone cresciute, oggi riversino fiumi di considerazioni intime e fotografie personali sulle pagine dei loro social network, è motivo di rassicurante sorpresa. Al contrario, io non mi sento cambiato: continuo a credere che sia conveniente tenere separato il pensiero dalla scrittura, allo stesso modo in cui l'allenamento e l'esibizione compongono due momenti distinti, ma necessari, nella danza.

Emily Dickinson, la mia eroina della poesia, non sarebbe stata d'accordo con me: per tutta la vita si dedicò alla scrittura in versi senza mai ambire alla pubblicazione delle sue opere, convinta che la sua fantasia potesse ogni cosa. Una delle sue poesie che amo di più recita: I’m nobody! Io non sono nessuno. Questo non le impedì di diventare tra le penne statunitensi più importanti del XIX secolo. Fu la sorella infatti a rendere pubblici i suoi versi, ritrovandoli dopo la sua morte.

Di epoca in epoca, la necessità di incontrare il favore del pubblico, ha cambiato forma, e le condizioni sociali ed economiche del momento, cosi come quelle politiche e di costume, hanno contribuito a diversificare il ruolo dell'artista nella società. Ma se è vero che il risultato finale di questo lunghissimo percorso, letto oggi, sembra avvicinarsi all’idea che «l'arte buona è sempre comprensibile a tutti», come scriveva profeticamente Lev Tolstoj, tenere per sé questo dono non puó apparire come un atto delittuoso ed egoista?

Forse tutti coloro che scrivono senza la pretesa di essere letti, come il Conte Mascetti di “Amici Miei”, si pongono la stessa domanda: ma poi, è proprio necessario essere qualcuno? La risposta mio malgrado é: no, non è obbligatorio. In fin dei conti, che si crei per un pubblico o per se stessi, un interlocutore è sempre presente. Autore e spettatore, semplicemente, possono coincidere. Di più, creare nel più completo anonimato, al riparo da giudizi e pregiudizi, può proteggere l'autenticità del risultato. Farlo però implica un alto grado di consapevolezza, di lavoro e di dedizione nel superamento dei propri limiti che oggi, per quanto riguarda la musica ai tempi dei talent show televisivi, dove come in un’arena romana ci sono giudici con il pollice verso e un pubblico che vota performer dal talento acerbo, sembra mancare. L’insicurezza quindi può portare a un eccessivo protezionismo.
E’ risaputo ciò che pensano molti musicisti sparsi per il mondo, una parte dei quali ama definirsi indie, (il termine indica un’autonomia artistica dalla cultura mainstream e la volontà di non far parte delle major discografiche), che pur non rifiutando l’apprezzamento del loro pubblico, si sentono a disagio quando la loro popolarità cresce troppo. Quasi a difendere le proprie creature artistiche dal clamore della massa, preferiscono uscire allo scoperto dove la fresca ombra del disinteresse attenua il bagliore delle luci della ribalta. Ho sempre ammirato questa scelta, rispettando e difendendo il percorso di ogni artista, ma non l’ho mai condivisa.
Il rifiuto del clamore del pubblico, o quel sottile compiacimento nel non essere compresi da tutti, nella musica leggera, a me suona come un paravento dal giudizio esterno. In fondo, più selezionato sarà il numero di persone che ti ascolteranno, e meno ti sottoporrai al patibolo del verdetto spietato della gente. A proposito: il termine “patibolo” deriva dal latino patire, che vuol dire guarda caso “essere manifesto”, mostrarsi quindi.
Sorrido, ripensando al fatto che anche il mio primo album, pubblicato quando avevo diciotto anni, una ventina d’anni fa, (e indipendente lo ero sul serio perché vivevo da solo), si può considerare a tutti gli effetti un disco indie. L’etichetta discografica che lo pubblicò infatti non faceva parte del circuito delle grandi multinazionali del disco, e io lo scrissi interamente quando ancora l’idea di diventare un cantante mi appariva meno credibile di un miraggio. I risultati sorprendenti ottenuti, fecero sì che alcuni pensassero fosse un prodotto imposto da una grande Corporation, quasi a credere che un così largo consenso di pubblico non potesse che essere altro che il frutto di chissà quale strategia discografica.
Un merito, invece, va riconosciuto alle radio e ai network nazionali, che fortunatamente credettero nelle mie canzoni, programmandole inaspettatamente in modo massiccio.
Negli anni, il pubblico con cui mi relazionavo, non è mai stato lo stesso, ma si è diversificato, cambiando insieme a me. Ho continuato a relazionarmi con lui mentre crescevo, senza diventarne mai dipendente, ma cercando di spiegare attraverso ciò che scrivevo che stavo compiendo un percorso, umano ancora prima che artistico. Album dopo album, fino ad oggi, il dialogo con chi è interessato alla mia musica è sempre stato aperto.
A mio parere, un artista che si rivolge parlando più volentieri allo specchio che alla finestra, rischia di fare la fine del cervo della favola di Fedro, che accortosi della sua immagine riflessa in uno stagno, indugiò sulla bellezza delle sue grandi corna, disprezzando le proprie gambe esili. Rimasto impigliato durante la fuga dai cacciatori, si pentì morendo di aver disprezzato la sua qualità migliore. A conti fatti quindi, che ci si offra agli altri, o che si cerchi di restare eletto tra gli eletti, il rischio di finire sbranati lo si corre comunque. Un detto popolare sostiene che “artisti si nasce”, ma è anche vero che non può esistere atto piú spregiudicato e coraggioso della decisione di esporsi. Io dico che vale la pena tentare, a costo di commettere errori.
Una volta superata la paura di questo, forse, potrebbero avvicinarsi all’arte milioni di persone che oggi danno l’impressione di essere tutte nascoste dietro la tastiera di un computer, dove esprimersi sembra un po’ troppo facile. Sono certo che, accontentandosi dei “like” che illudono di poter sfamare una vanità insaziabile, tanti fotografi, scrittori, musicisti, battutisti, e piccoli o grandi creativi, stiano rinunciando alla possibilità di misurarsi davvero con il proprio talento, commettendo l’errore di scambiare l’apprezzamento di un pubblico virtuale, con un risultato professionale, La sicurezza ostentata nell’esibizione di se stessi su internet mi sembra si areni davanti allo scoglio del dover mettere a nudo davvero le proprie reali attitudini, senza la possibilità di fuga che la rete fornisce. Forse ancora una volta, il timore di uscire allo scoperto e fare i conti con quanto si vale, prende il sopravvento.
Ma il terrore di non essere all’altezza è al contrario, dal mio punto di vista, una parte integrante del mestiere d’artista. Se io stesso potessi sconfiggerlo, avrei scritto certamente la mia canzone più bella, ma credo che sarebbe anche l’ultima. Ne sono vittima, e allo stesso tempo me ne nutro continuamente, ogni volta in cui mi siedo al pianoforte pervaso dall’idea di scrivere, o intento a raccogliere un frammento di una idea musicale che desidero ampliare. Il campo in cui mi muovo mi condanna senza vie di fuga alla ricerca dei punti deboli di cui siamo tutti portatori sani.
Nella mia esperienza in divenire, lo scrivere è sempre stato associato alla possibilità di recuperare, nella corsa della vita, il terreno perso dopo una rovinosa caduta. Non si tratta soltanto di uno sfogo quindi, o della consolazione che può apportare, ma di una magia che io credo essere più antica della parola stessa, e di cui le formule si sono probabilmente smarrite nel corso del tempo. Come un pescatore rigetta in mare le sue lenze ingarbugliate sperando che le correnti le snodino, io pubblico canzoni cercando di ritrovare la parte migliore di me dopo averla persa. Ammettere l’errore quindi, e raccontarlo, può annientare un ricordo spiacevole, trasformare il rancore in consapevolezza, la tolleranza in conoscenza, la libertà in condivisione, i ricordi in visioni del futuro. Questo è il motivo per cui le mie canzoni, quelle almeno che terminano con il sorriso, incontrando chi le ascolta, posso dire che trasformino gli insuccessi della mia vita di tutti i giorni in successi insperati. E il pubblico ha un ruolo definito in questo processo, perché quando e se dona il suo consenso, tra il fragore di un applauso e il boato che accoglie un riff introduttivo di una canzone durante i concerti, riesce a sancire definitivamente questa trasformazione.
Certo resta il dubbio che un pubblico sempre più frammentato, che ragiona non più per album da collezionare ma per playlist, non più per libri ma per raccolte, non più per scaffali impolverati ma per librerie digitali, sia facile da raggiungere ma sempre più difficile da coinvolgere.
Il mercato induce gli artisti a cercare consenso tramite il dialogo su internet, creando opere su misura, della grandezza e del peso necessario per la vita di chi ascolta, come fossero mobili di Ikea piuttosto che flussi di coscienza liberi e senza compromessi, frutto di un lavoro di ricerca con se stessi.
Inoltre sono state scritte e pubblicate un numero infinito di canzoni. Contarle sarebbe quasi impossibile. Il cd resta il supporto di riferimento anche se la musica digitale negli ultimi anni ha portato miliardi di brani negli smartphone di un pubblico in evoluzione. Di reazione sta tornando il vinile, ma allo stesso tempo la musica via streaming sta prendendo sempre più piede in tutto il mondo ed è destinata a moltiplicare i suoi utenti. Bob Dylan, che Dio lo benedica, in una recente intervista ha dichiarato maliziosamente che non servono piú nuove canzoni. Intendeva a parte le sue, forse.
A complicare le cose si aggiunge il fatto che ad oggi le note sono e restano sette. Come non rimanere spiazzati di fronte a tutto questo?
Come continuare a credere che la canzone potrà ancora dare il suo storico contributo?
La sua forza nel tempo che verrà, è data dal fatto che il linguaggio che utilizza è variabile, in costante mutamento, meravigliosamente imprevedibile. Ogni epoca avrà le sue, e saranno sempre buone o cattive a seconda dei nostri gusti personali, ma non per questo meno importanti.
Così come possiamo avvicinarci più dolcemente a una idea di futuro guardando i film di fantascienza o rinvigorire il nostro senso di appartenenza a una nazione rileggendo le lettere dei soldati che nelle grandi guerre ne hanno difesi i valori, alcune canzoni danno la sacra speranza a chi è pronto a riceverle di muoversi nello spazio e nel tempo stando fermi, rendendo familiare ciò che é apparentemente estraneo. Per fare un esempio più consistente, possiamo capire di più lo spirito dei popoli ascoltando le loro canzoni tradizionali, alcune nate durante i periodi bui della storia, (a dimostrazione che la musica non è necessaria solo in tempi di pace e ottimismo).
Allora non è difficile comprendere che straordinario potere evocativo possieda una canzone di soli tre minuti o poco più, capace di connettere milioni di persone di fronte ad una soggettiva che a volte può essere intima e personale.
Nonostante un particolare atteggiamento mentale volto a ritenere che il ruolo delle canzoni e della musica pop in generale sia leggero e destinato al solo intrattenimento, credo che l’arte, tutta, ma soprattutto quella popolare come la musica leggera, (che io non intendo come superficiale bensí agile, veloce, a presa rapida), oggi più che mai rappresenti un’importante possibilità di connessione tra individui.
Questo prodigio si manifesta in modo tangibile durante i concerti e i grandi eventi dal vivo, sempre più numerosi in tutto il mondo, compreso in Italia. Il ritorno al rito collettivo, massima espressione del potere aggregante della canzone, é anche un ritorno alle origini dell'arte che ci riporta al suo significato più profondo che è quello dello scambio, tra chi scrive, chi legge, chi canta e chi ascolta.